E' con gigantesco piacere che ho saputo del nuovo lavoro di Dino Betti, musicista "e quant'altro" che ad ogni passo sonoro sa dare un po' di più del passo precedente.
Ho ascoltato più volte il disco (finché si può dire disco continuiamo...) dall'inizio alla fine, come si doveva e come non si doveva -talvolta in qualche faccenda affaccendato-, mentre mi sarebbe bastato dar retta ai maestri, che ci sono apposta per insegnare a noi che, zittini, dovremmo eseguire senza discutere troppo e poi semmai osare altro: è nelle note di copertina di Fayenz, bisogna ascoltare questo progetto da soli in cuffia. Cavolo, c'è scritto con chiarezza; perché non l'ho semplicemente fatto subito? Sono sparite sensazioni non chiare, idee indefinite... bastava dar retta...
Tant'è. Splendido episodio di jazz moderno, contemporaneo nel senso e nel tempo presente del termine; rispetto al precedente lavoro sembra che l'approccio sia stato, forse d'animo prima ancora che concretamente musicale, diverso. La sensazione complessiva è quella di un orchestratore che, prima, si è accertato che i musicisti amassero il pianeta Terra e che sapessero suonare con uno spirito a lui (il pianeta, dico) vicino. Tutto sembra progredire, compositivamente e nel flusso improvvisativo, in un continuo stare a contatto con la terra e sollevarsi appena, liberi e consapevoli d'essere qui. La struttura dei brani, la parte composta su cui i musicisti hanno potuto lavorare, sembra voler essere proprio un terreno, un letto di fiume ampio, una distesa di confini ma larga da abitare, in modo che fosse chiaro e più istintivo possibile per ciascuno realizzare in modo organizzato e d'incontro con le altre libertà la propria.
La batteria è in questo senso più volte determinante nel chiarire che né un ritmo netto né un disordinato guardarsi intorno a caso potrebbero descrivere adeguatamente il selvatico rigore terrestre, e per questo proprio in armonia con l'incedere del drumming l'orchestra materializza nelle individualità e nell'insieme quel che il free non riesce da solo a rendere compiuto e quel chela tradizione jazz per big band non riesce a far fiorire senza rigidità.
La celebrazione di un pianeta è affidata quasi al far parlare il pianeta stesso tramite la musica: fluido, incalzante, urgente, lirico proprio quando si fa terrigno: questo è l'omaggio di Dino Betti al luogo in cui viviamo tutti a miliardi; ve lo consiglio senza pensarci un attimo come pure dopo averci pensato, e dopo aver sentito. Questa è una delle non molte nuove strade che il jazz può avere per dirsi nuovo, oggi, e questa è musica bella, capace di raccontare non di sé ma attraverso sé.
Ho ascoltato più volte il disco (finché si può dire disco continuiamo...) dall'inizio alla fine, come si doveva e come non si doveva -talvolta in qualche faccenda affaccendato-, mentre mi sarebbe bastato dar retta ai maestri, che ci sono apposta per insegnare a noi che, zittini, dovremmo eseguire senza discutere troppo e poi semmai osare altro: è nelle note di copertina di Fayenz, bisogna ascoltare questo progetto da soli in cuffia. Cavolo, c'è scritto con chiarezza; perché non l'ho semplicemente fatto subito? Sono sparite sensazioni non chiare, idee indefinite... bastava dar retta...
Tant'è. Splendido episodio di jazz moderno, contemporaneo nel senso e nel tempo presente del termine; rispetto al precedente lavoro sembra che l'approccio sia stato, forse d'animo prima ancora che concretamente musicale, diverso. La sensazione complessiva è quella di un orchestratore che, prima, si è accertato che i musicisti amassero il pianeta Terra e che sapessero suonare con uno spirito a lui (il pianeta, dico) vicino. Tutto sembra progredire, compositivamente e nel flusso improvvisativo, in un continuo stare a contatto con la terra e sollevarsi appena, liberi e consapevoli d'essere qui. La struttura dei brani, la parte composta su cui i musicisti hanno potuto lavorare, sembra voler essere proprio un terreno, un letto di fiume ampio, una distesa di confini ma larga da abitare, in modo che fosse chiaro e più istintivo possibile per ciascuno realizzare in modo organizzato e d'incontro con le altre libertà la propria.
La batteria è in questo senso più volte determinante nel chiarire che né un ritmo netto né un disordinato guardarsi intorno a caso potrebbero descrivere adeguatamente il selvatico rigore terrestre, e per questo proprio in armonia con l'incedere del drumming l'orchestra materializza nelle individualità e nell'insieme quel che il free non riesce da solo a rendere compiuto e quel chela tradizione jazz per big band non riesce a far fiorire senza rigidità.
La celebrazione di un pianeta è affidata quasi al far parlare il pianeta stesso tramite la musica: fluido, incalzante, urgente, lirico proprio quando si fa terrigno: questo è l'omaggio di Dino Betti al luogo in cui viviamo tutti a miliardi; ve lo consiglio senza pensarci un attimo come pure dopo averci pensato, e dopo aver sentito. Questa è una delle non molte nuove strade che il jazz può avere per dirsi nuovo, oggi, e questa è musica bella, capace di raccontare non di sé ma attraverso sé.
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