Ormai è storia conosciutissima a chiunque ami Giovanni Allevi, a una buona fetta di quelli che lo odiano e a parecchi che, semplicemente, sono appassionati per la musica: l’Osservatore Romano, con L’Unità quasi “di rimbalzo”, con un articolo particolarmente tagliente e puntuto ha fortemente criticato il fenomeno Allevi non solo sul piano del mercato musicale, ma anche dal punto di vista dei contenuti e delle forme attraverso cui la musica del pianista ascolano si concretizza.
Ci sono due aspetti che mi lasciano quantomeno perplesso.
Musica!
E’ davvero curioso che ci siano persone in grado di determinare cosa sia emozionante e cosa no. Naturalmente non voglio essere io stesso a riprodurre quello che considero un errore e quindi non generalizzo neanche all’opposto, sicché siamo tutti d’accordo se diciamo, con una certa permissività verbale, che ci sono musiche talmente brutte, talmente commerciali, talmente finte da non poter emozionare, proprio perché esistono per altre ragioni; non mi aspetto, in altre parole, che un jingle scemo con cui l’animazione di un villaggio apre lo spazio caccia al tesoro della settimana possa suscitare altre emozioni che quelle temporanee (di gioia come d’odio) dei villeggianti. Bene; ciò detto come si fa a determinare se un brano di Allevi, un cervellotico pezzo dei King Crimson, un devastante strappo punk-jazz dei Bad Plus, un’arpa eolica, una nEnya, un canto indiano siano o no emozionanti? Rispetto a cosa? Le composizioni di Allevi non possono, obiettivamente, essere definite “spaghetti alla bolognese”; non ne hanno le equivalenti caratteristiche sonore e strutturali, non presentano minimamente le stesse materie prime a livello qualitativo. Possono piacere, non piacere, emozionare qualcuno e non qualcun altro, possono esser fatte di un enciclopedismo musicale che molto raccoglie e poco aggiunge sul piano formalmente compositivo, possono essere discusse a più livelli con risultati alterni, ma non sono, sotto alcun profilo, “spaghetti alla bolognese”. Si tratta di una riduzione che non tiene in alcun conto la qualità a monte e a valle di un prodotto e dell’altro, tutto qui.
Allevi per il sociale
Attendo con ansia la prima tesi di laurea a cavallo tra sociologia e scienza delle comunicazioni sul fenomeno Allevi e ciò che è stato in grado di scatenare. Lotte tra tifosi, agguerrite dissertazioni sul mercato musicale che diventano attacchi ad una persona, gente divisa tra chi lo crede Chopin risorto e chi non gli affiderebbe manco la Giaccaglia malridotta di quand’era piccolo. Sembra che Allevi porti con sé l’impossibilità d’esser normali, la necessità d’una presa di posizione che attraverso lui consenta a questa o quella persona di uscire dall’opinione di gruppo, finendo in modo ridicolo col far appartenere la persona stessa all’altro gruppo, che è come fare gli anticonformisti per manifestare personalità, trovandosi quindi a dipendere dalla moda –dovendo riprodurne gli opposti- esattamente come i conformisti, e risultando alla fine più perdenti del nemico, perché un conto è dire zero e un altro è sparare cento per poi dover smentire cento il giorno dopo. Insomma, Allevi è bianco, no, è nero, suona come Chick Corea incastonato in Bollani lungo un pianoforte d’oro massiccio, no, è una zappa riccia, scrive l’equivalente dell’Appassionata di Beethoven, no, stiamo tre metri sotto al ballo del qua qua.
Che senso ha discutere così?
Allevi ha una tecnica notevole come i lavori in studio evidenziano, e ne perde un bel po’ dal vivo, come i dal vivo evidenziano.
Ok? Credo di sì.
Mastica musica classica a chili restituendone molte caratterizzazioni e strutture in una sorta di forma canzone, con un’efficacia il cui livello è evidentissimo a chi voglia asetticamente rilevarlo.
Ok? Credo di sì.
Allevi ogni tanto usa frasi che possono apparire o anche essere, a seconda dei casi, un po’ più grandi di quanto la sua arte possa sempre e comunque oggettivamente esprimere. Un po’ è parte del personaggio, un po’ è carattere, un po’ è marketing; c’è gente del mondo della musica che vale molto meno e straparla davvero, alla “luce” magari di alcune buone intuizioni avute 30 anni prima che ha poi replicato centinaia di volte facendole passare -creduto- per ulteriori genialate di percorso, ma siccome è istituzionalmente meno attaccabile le sue dichiarazioni e la sua sempre meno utile musica passano, magari al più col sorriso.
Ok? Credo di sì.
Detto asetticamente Allevi ha prodotto, nel corso della sua discografia, primi lavori in cui la maturità compositiva ed esecutiva era in costruzione e conteneva eccessi, poi ha sfornato due lavori –No Concept e Joy- compiuti e consistenti seppure con alcuni punti d stanca e poi ha realizzato un lavoro orchestrale molto meno personale in cui il suddetto enciclopedismo si realizza in modo troppo evidente e poco originale, replicando in più punti organizzazioni sonore e concezioni orchestrali già sentite anche (e in alcuni casi soprattutto) nel ‘900.
Ok? Credo di sì.
Come mai accada che a considerazioni così lineari e relativamente condivisibili si arrivi agli spaghetti alla bolognese o al nuovo Mozart potrebbe essere oggetto di un successivo approfondimento in questo blog oppure può essere auspicabilmente affidato alla realizzazione della succitata tesi di laurea. Resta una realtà divisa sostanzialmente in quattro gruppi (tra i quali apprezzo i due centrali): coloro per i quali Allevi è un segno pari al verdoniano Burt Reynolds in costume da bagno; quelli che lo ascoltano insieme a molta altra bella musica emozionandosi e godendosi le melodie che con grande efficacia Allevi sa costruire; quelli che ascoltano molta bella musica ma tra questa non trovano Allevi protagonista e quindi lo ascoltano per quel poco che gli capita o per nulla; quelli –variamente titolati tra professioni ed arti applicate di pertinenza- che Allevi è spaghetti alla bolognese.